Omelia XXII Domenica T.O.-A

(Matteo, 16,21-27)

Ave Maria!

Il brano evangelico di oggi, così esplicito e difficile da capire per la mentalità umana, mette in chiaro il “prezzo”, molto alto, dell’esperienza cristiana e che ancora oggi facciamo una grande fatica ad accettare in tutte le sue conseguenze per la fede autenticamente vissuta. Infatti, il mondo edonistico e consumistico in cui viviamo, quasi non ci permette di prendere sul serio, intanto, l’esperienza di Gesù che si trovò ad affrontare il suo destino con la sconfitta, l’umiliazione e la tragedia del Venerdì Santo, pur di restare fedelissimo al disegno di salvezza del Padre. Parlare dell’accettazione della croce, della sconfitta e dell’umiliazione, per noi contemporanei, educati dal “progresso” e dalle meraviglie della tecnologia e dalle possibilità del “mercato”, è oltretutto consegnare il cristianesimo alla emarginazione sociale e culturale quale non si è mai vista in altre epoche della storia. Ma tant’è. E’ accaduto, però, al tempo di Gesù ed è accaduto lungo questi duemila anni di fede cristiana in cui molti cristiani, anche dei piani alti della Chiesa, confessavano che Gesù è “il Figlio del Dio vivente”, ma poi non volevano seguirlo nel suo cammino verso la croce, l’umiliazione e la sconfitta. Agivano e pensavano come Pietro per cui, un giorno o l’altro, avranno dovuto udire, come lui, quel terribile avvertimento dalle labbra di Gesù: “tentatori satanici”!

Vediamo, allora, le cose più da vicino. E’ sicuro che l’apparizione di Gesù, tra la popolazione della Galilea, provocò non poca ammirazione e perfino entusiasmo. I discepoli, manco a dirlo, sognavano per questa ragione un completo successo. Gesù, al contrario, viveva e pensava unicamente alla volontà del Padre, che voleva compiere fino in fondo, ed ebbe chiaro nella sua anima che mai gli uomini, anche religiosi, avrebbero accettato il suo messaggio e il senso della sua testimonianza. Così cominciò a spiegare ai suoi discepoli quello che lo attendeva: salire a Gerusalemme, dove avrebbe dovuto “soffrire molto” e, precisamente, da parte dei capi religiosi, mentre la sua stessa morte rientrava nei disegni di Dio quale conseguenza inevitabile della sua condotta senza compromessi o cedimenti; ma il Padre lo avrebbe risuscitato. Non sarebbe rimasto, di fronte a questa morte, passivo o indifferente.
Abbiamo ascoltato la reazione di Pietro dinanzi a questo inaspettato annuncio di morte. Non vuole vedere fallire Gesù, perché vuole seguire un Maestro vittorioso e trionfante. Per questo lo prende in disparte e lo rimprovera! “ Dio non voglia, Signore! Questo non ti accadrà mai”. In altre parole, Pietro non vuole rischiare tutto per Gesù. Ed è un Pietro diverso da quello che, aperto con semplicità alla rivelazione del Padre, ha confessato poco prima che Gesù è il Figlio del Dio vivente. In questo caso, Pietro era la “roccia”, sulla quale Gesù poteva costruire la sua comunità a venire, la Chiesa. Ma ora, volendo seguire gli interessi umani, e pretendendo di distogliere Gesù dalla via della croce, diventa ad un tratto un “tentatore satanico”. La durissima risposta di Gesù, a questa eventualità, ci colpisce come uno schiaffo in piena faccia: “ Togliti dalla mia vista, Satana”. Gesù non vuole più Pietro davanti ai suoi occhi, perché lo fa inciampare, gli è di ostacolo nel suo cammino e forse colui che era il suo migliore discepolo, dopo tutto, è come tutti gli altri uomini che pensano unicamente al loro personale benessere e non a Dio. Oppure, se adottiamo un’altra traduzione, altrettanto legittima, ed anzi più letterale, della risposta di Gesù a Pietro: “Va’ dietro a me, Satana”. E’ quello il tuo posto, gli dice Gesù. Mettiti dietro di me, da vero discepolo, e non cercare di corrompere la mia vita orientando il mio progetto verso il potere e il trionfo!
Che episodio drammatico e sconvolgente è mai questo in cui Gesù ci sorprende per la durezza della sua risposta a quel povero Pietro che lo amava, in ogni caso, tanto da non riuscire a pensare una sconfitta così atroce per il suo Maestro? Noi tutti avremmo reagito, probabilmente, allo stesso modo. Eppure, la croce di Gesù arriva sempre di sorpresa, all’improvviso, come un ladro nella notte, e forse quando ci sentivamo al sicuro. E chiunque abbia fatto realmente esperienza della sequela di Gesù sa, al di là di ogni dubbio, che la croce sorprenderà anche lui. Anzi, è un segno inequivocabile, nel profondo della sua anima, che sta seguendo Gesù. Di fatto, la croce deve disarcionarci dalla nostre presunte sicurezze e da ogni compiacimento religioso o devoto, deve gettarci a terra, mettere a nudo la nostra debolezza, per sperimentare la vittoria di Dio proprio nel momento del più crudo fallimento di tutte le nostre aspettative o desideri di conquista di situazioni ideali. Nessuno porta la croce di pasqua in modo glorioso e indolore, se prima non ha attinto le labbra nel calice di Cristo fino in fondo. (A. Louf).

Non è facile, dunque, affacciarsi al mondo interiore di Gesù, ma nel suo cuore, seguendo con schiettezza e passione le narrazioni evangeliche, possiamo intuire una duplice esperienza: la sua identificazione con gli ultimi, gli sconfitti dalla vita e la sua fiducia totale, senza ombre, nel Padre. Soffre, quindi, per l’ingiustizia, le disgrazie e le malattie che affliggono l’umanità, ma confida fermamente in questo Dio Padre che non vuole altro che sradicare dalla vita quanto è male o fa soffrire i suoi figli. Ed era disposto a tutto pur di realizzare il desiderio di Dio, Padre suo! E, com’è naturale, voleva trovare nei suoi discepoli e discepole lo stesso suo atteggiamento: se seguivano i suoi passi nella loro vita, dovevano condividere la sua passione esclusiva per Dio e la totale disponibilità al servizio del suo regno. Voleva, insomma, accendere in loro il “fuoco” che si portava dentro e per questo motivo, in quelle espressioni così paradossali per la nostra sensibilità umana, Gesù voleva invitarli a vivere come lui, di quella verità che lui viveva: “ Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia – perché mi ama e crede in me -, la troverà. Chi cammina, dunque, dietro di Lui, ma continua ad attaccarsi alle sicurezze, scopi e aspettative che gli offre la sua vita, può finire con il perdere il bene più grande di tutti: la vita vissuta secondo il desiderio di Dio, il suo progetto di salvezza anche oltre la morte. Dopo tutto, chi rischia tutto per seguirlo, troverà vita, e molta vita, poiché entra con Lui nel regno di Dio.

Ma, con il coraggio e la verità dell’umiltà, dobbiamo ammettere che non è completamente in nostro potere fare una scelta così paradossale e contraria al nostro istinto più invincibile e profondo di autoconservazione, di affermazione e volontà di supremazia su tutto. Ad un livello ancora più profondo della nostra anima, più spirituale e quasi inafferrabile, c’è in noi, cristiani, la realtà del peccato ossia la nostra incredulità nei confronti di Dio e, il più delle volte, il bisogno di toccare con i nostri sensi e il nostro materialismo nascosto la realtà stessa di Dio, prima di fidarci e di abbandonarci completamente nelle sue mani. Oscilliamo come canne al vento. In realtà, non ci fidiamo di Dio o di chiunque pensa di fare il nostro bene che, invece, a noi pare di conoscere benissimo. Mentre, in realtà, non lo sappiamo e lo dimostra il fatto che, in questo bene, ci sbagliamo o facciamo tanti errori che il tempo, e solo il tempo a nostra disposizione, un giorno o l’altro rivelerà come tali. E’ soltanto la grazia di Dio, la grazia di Gesù che noi possiamo assecondare e fare nostra, con la fede e la preghiera, che può incamminarci lungo la strada del desiderio di Dio. Gesù, in effetti, non rimprovera soltanto Pietro per le sue vedute umane, troppo umane, ma dietro il suo tono severo c’è anche l’insegnamento che egli rivolge a tutti i suoi discepoli e discepole: mettiti dietro a me e vedrai, non cercare di sostituirti a me se vuoi vedere le grandi opere di Dio che Egli può fare con la fragilità della tua carne.

E’ importante, in questo caso, osservare che san Paolo, nelle sue Lettere, non si stanca mai di radicare in noi l’idea di una fede, l’invocazione di una fede in Cristo, che non conduce in primo luogo ad agire (Cfr. Galati, 5,6), ma a pregare incessantemente perché il Signore Gesù ci dia la grazia di seguirlo, costi quel che costi. E’ la preghiera della santa liturgia, con al centro la santa Eucaristia, la preghiera che la fede della Chiesa mette sempre al primo posto, come anche in questa domenica, dove l’orazione iniziale chiede, chiede sempre a Dio, tutto quello che possiamo fare per seguire Gesù: “O Dio, nostro Padre, unica fonte di ogni dono perfetto, suscita in noi l’amore per te e ravviva la nostra fede, perché si sviluppi in noi il germe del bene e con il tuo aiuto maturi fino alla sua pienezza” (Orazione iniziale delle liturgia di questa XXII Domenica del Tempo Ordinario). E’ la preghiera, inoltre, del Salmista che, stanco dei suoi sforzi e dei suoi tentativi di rimanere fedele a Dio, invoca da Lui e soltanto da Lui questa fedeltà e stabilità: “Sono stanco di soffrire, Signore, / dammi vita seconda la tua parola. / Signore, gradisci le offerte delle mie labbra, / insegnami i tuoi giudizi. “ (Sal 118). Bellissima e commuovente preghiera, questa del Salmista, che la bontà di Dio ha certamente esaudito e proprio nel momento in cui la carne umana è totalmente arresa a Lui, senza autodifese o moralismi di autogiustificazione.
Senza questa preghiera accorata, sincera e continua, giorno dopo giorno, situazione dopo situazione, noi non possiamo né fare nulla né agire secondo il desiderio di Dio (“insegnami i tuoi giudizi”, sulla vita, me stesso, ecc.) e Gesù lo ha detto una volta per tutte: “Senza di me, non potete far nulla”, casomai ci venisse la tentazione di pensare che è grazie ai nostri soli sforzi che possiamo seguirlo. Non a caso, oggi questa tentazione è la più insidiosa per la fede perché manca della preghiera del cuore che implora e invoca da Dio la grazia di amarlo e seguirlo nella fedeltà e nella stabilità di ogni giorno, di ogni momento. Ed è per questo motivo che tanti cristiani contemporanei, convinti di seguire Gesù e di essere attaccati al suo messaggio, hanno spessissimo la sensazione, in fondo in fondo, di star “perdendo la vita” per una utopia, quella cristiana, a conti fatti del tutto irraggiungibile. E così scendono a compromessi, inconsci, con il materialismo, il relativismo e le “ragioni del mondo”: non stiamo finendo con il perdere i nostri anni migliori sognando e sognando con Gesù? Non stiamo sprecando le nostre energie migliori, la nostra giovinezza o la nostra vita, per una causa inutile e tutto sommato perdente, la causa di Dio?

La domanda, anche in questo caso, potrebbe essere tutt’altro che stupida o soltanto terra terra, anche perché non solo pochi aspetti del messaggio evangelico sono stati tanto distorti da una predicazione generica, superficiale e priva di autentico fondamento, ma anche perché, per conseguenza, non pochi così detti cristiani hanno delle idee piuttosto confuse e farraginose sull’atteggiamento cristiano di fronte alla sofferenza. Ed è necessario, allora, capire che soltanto da Gesù possiamo imparare come comportarci davanti alla sofferenza nostra e degli altri.
Intanto, facciamo subito una precisazione: in Gesù non incontriamo questa sofferenza che esiste in noi perché generata dal nostro peccato o dalla nostra maniera (errata e falsa!) di vivere. Gesù, insomma, non ha conosciuto le sofferenze che nascono dall’invidia, dal risentimento, dalla competitività, in una parola del vuoto interiore o dall’attaccamento egoistico e narcisistico alle cose materiali e perfino alle persone. Nella nostra vita, pertanto, c’è una sofferenza, - gli psicologi dicono che può raggiungere il 90/% della sofferenza in certe persone -, che dobbiamo combattere o cercare di eliminare (ma sempre con la preghiera a Dio), se vogliamo seguire Gesù. Il Salmista prega incessantemente perché sia liberato da Dio da ogni sentimento di invidia, competitività, volontà di potere e di violenza contro la “fortuna” degli altri. Ed è questo che rende così preziosa e insostituibile la preghiera dei Salmi, fatta con il cuore e non solo con le labbra.
Inoltre Gesù non ama e non cerca la sofferenza né per sé né per gli altri, come se la sofferenza fosse qualcosa di speciale e gradito a Dio. I racconti evangelici non lasciano dubbi su questo. Ed è dunque un errore, una nostra distorsione credere che una persona cerca di seguire Cristo perché cerca di soffrire arbitrariamente e senza necessità. In verità, quello che Dio gradisce, secondo l’insegnamento evangelico, non è la sofferenza, ma l’atteggiamento con cui una persona accetta la sofferenza nella sequela fedele e stabile di Cristo. E allora “prendere la croce” vuol dire prima di tutto seguire fedelmente Gesù e accettare le conseguenze dolorose che, senza alcun dubbio, seguiranno a tale sequela. Vi saranno rifiuti, incomprensioni, patimenti e mali, anche nella stessa comunità cristiana, che il cristiano deve sempre accettare con umile fede e sguardo rivolto a Dio. E’ una sofferenza che, a rigore di termini, possiamo far sparire dalla nostra vita solo smettendo di seguire Gesù (ed è quello che fanno in molti, moltissimi, ahimé!). Ecco, dunque, la “croce” che ciascuno di noi deve portare seguendo i suoi passi.
E anche “rinnegare sé stesso” non significa affatto annullarsi o autodistruggersi. Rinnegare noi stessi significa piuttosto vivere senza molti riguardi per noi stessi, ma per aderire radicalmente a Lui. Detto in altri termini, “prendere la croce” significa seguire Gesù, disposti a fare i conti con l’insicurezza, la conflittualità, il rifiuto o la persecuzione che dovette patire lo stesso Crocifisso. Però, il cristiano non vive questa croce da sconfitto, ma come portatore e testimone di una speranza finale, una speranza contro ogni speranza: chi perderà la vita per Gesù Cristo, la troverà dal momento che il Dio che ha risuscitato Gesù, risusciterà anche noi a una vita piena e che nessuno potrà mai toglierci.

Gesù. dopo tutto, - se lo seguiamo fedelmente -, non smetterà di meravigliarci, di condurci dove non avremmo osato mai di mettere piede, mentre la sua croce ci sconcerterà sempre. Ma sappiamo di poter contare su di Lui ogni giorno di più e sino alla fine, in modo incrollabile, perché lo cerchiamo nella preghiera e nell’invocazione della preghiera: conoscendolo da vicino e ben oltre le chiacchiere del sentito dire, sappiamo in chi abbiamo creduto, a chi soprattutto ci siamo affidati. Così ogni Eucaristia rinnova il mistero della croce di Gesù, la sua oblazione al Padre per noi, la sua inesauribile preghiera per noi, e come dice mirabilmente Andrè Louf: “Possa allora renderci più disponibili alla sua irruzione improvvisa, rinnovare la gioia di lasciarci sedurre, darci la forza di accettare serenamente la nostra croce”. Amen.


don Carmelo Mezzasalma
San Leolino, 20-30 agosto 2020

 

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